Nei recenti lavori di Maria Pia Daidone il segno, in particolar modo “il cerchio”, si costruisce come documento antropologico, una scrittura possibile, non determinata da significati prestabiliti.
La ricerca dell’artista si sviluppa come indagine rivolta soprattutto alla fattualità del segno, che unisce le parole e le cose, il pensiero e il gesto, l’idea e la mano. Daidone, dunque, in questi lavori parte da una lettura analitica del mondo esterno alla ricerca di simboli spontaneamente proposti dalla realtà.
Sebeok in “Contributi alla dottrina dei segni” afferma che è chiamato simbolo un segno senza similarità né contiguità, ma soltanto con un legame convenzionale tra il suo significante e i suoi denotata, e con una classe intenzionale per il suo designatum.
E la storia del simbolismo dimostra che qualsiasi cosa può assumere un significato simbolico, l’intero cosmo è un simbolo potenziale. E il cerchio è uno dei simboli più espressivi e potenziali.
Il cerchio o la sfera costituisce il simbolo del “sé”. Esso vale ad esprimere la totalità della psiche in tutti i suoi aspetti, compreso il rapporto uomo-natura. Il simbolo del cerchio si manifesta nel culto solare dei primitivi, nei miti e nei sogni, nei motivi mandala dei monaci tibetani, nei piani regolatori delle città, nelle concezioni sferiche dei primi astronomi. Nel simbolismo psicologico esprime l’unione dei contrari, il mondo personale, temporale dell’ego con il mondo impersonale, atemporale. Questo simbolo così pregnante di significati nelle opere della Daidone si mostra nelle diverse articolazioni, come morfema di un alfabeto possibile. Non a caso la lettura di questi lavori, di piccole dimensioni, è costituita in serie, nelle diverse configurazioni il suo segno si dà come scrittura nel seguire un ritmo che è dato unicamente dall’artista e, collocato in una porzione di spazio, si definisce e si sviluppa con significati e sensi diversi.
Ecco, quindi, la lettura di un alfabeto che può ricordare, in parte, l’operazione pittorica di Emilio Scanavino con una serie di lavori denominati “Alfabeto senza fine” del 1970, dove lo spazio è stato diviso in quadrati, poiché “la definita armonia del foglio quadrettato non è che la proiezione logica dell’infinito, del non definibile; la scacchiera di un gioco senza inizio e senza fine” (F. Russoli). La Daidone non divide lo spazio, ma sembra quasi crocefiggere o legare questa forma, che sembra energia che continuamente muta, si condensa o si espande, embrione, larva, e misteriosa cifra.
Il colore si affianca, è contorno, campitura o indicazione. Dalla concitazione informale, di cui certamente si è nutrita l’artista napoletana, dalla violenza gestuale il segno si organizza e si compone sul supporto cartaceo. L’ordito della trama, comunque, non riesce a trattenere del tutto il colore che, come elemento sintattico, trasuda dalle forme per evocare spazi da esplorare.
Graffiti nel colore le forme si mostrano quasi come reperti di scavi nella memoria, come segni salvati da un diluvio di immagini che affiorano nella mente di chi del tempo ha sempre seguito gli umori. Scritture possibili, dunque, di ricordi che parlano forse di albe primordiali quando dell’uomo era compagna la terra. O caldi ricettacoli per chi ancora vuol nutrire sogni.
Battipaglia (SA), agosto 1997
Cristina Tafuri