Non molto tempo fa, un acuto osservatore del nostro tempo, il tedesco Hans Magnus Enzensberger, giustamente sparava a zero sulla moda in nero assunta e imposta dai giovani sugli assi della quotidianità e della festa, mettendo in luce quanto non solo di funereo, ma anche di scontatamente essa dittatorialmente veicolasse.
Il nero e la moda, in realtà, sono andati già più volte a braccetto nella storia, come nel romanticismo: mai, però, come nel nostro tempo, il black e il dark, si sono affermati in termini di massa e di rinunzia definitiva al decoro, anzi di sottoscrizione compiaciuta di una condizione feralmente pauperizzata e stracciona.
Lo scenario ora non sembra proprio più quello del trionfo di una minoranza di trasgressivi, che celebra la festa della provocazione e dell’assalto alle rocche del conservatorismo, piuttosto, invece, esso è, in considerazione del suo successo generalizzato, se non assoluto, di una masochistica esaltazione del bulicame e del liquame dell’esistenza assunti come valore.
E se si provasse a trasferire la scaletta delle considerazioni di Enzensberger dalla moda del vestiario alle mode della pittura, della letteratura, del teatro?
Non si potrebbe e non si dovrebbe concludere che in pittura c’è un netto spartiacque tra i cretti di Burri, che introducevano una dichiarazione di incompatibilità con le pillole indorate del milieu al potere di quegli anni, e tutta questa carbonosa, bruciacchiata, sfumacchiata evocazione di guasti degli epigoni del nero, che si accampano intanto a scopritori e suggeritori del black per il nostro tempo?
Molto più seria e credibile, di contro, è l’operazione che da anni sta conducendo Maria Pia Daidone, che si lascia guidare non da richiami di massa aizzata, ma dal proprio istinto di serietà e di decenza.
Finora, essa si orientata, sempre sul fondamento di questa sana opzione, in una prima fase verso la contrattazione di ideogrammi e iconi essenziali e arcaici, fluenti nel sottosuolo della coscienza, quindi in una seconda fase, ha preso a esaminare e valutare i reperti del passato per le testimonianze oggettive di sigificatività e di qualità e per la compatibilità con interventi e integrazioni non di orpellatura, ma di prove e saggi di risignificazioni.
In quest’ultimo periodo, infine, l’artista ha scelto di abitare la storia, non come universo degli stravolgimenti e degli straniamenti o come scena di preparazione dell’apocalisse prossima ventura, ma come casa dell’uomo, dove, non ostante tutto, si è epifanizzata e continua ad epifanizzarsi un’emblematicità di dignità, che viene da lontano e va lontano, aiutando tutti a scommettere sulla forma e sul colore come consegna testamentaria da salvaguardare.
Ugo Piscopo