Un sentimento di colloquiale e pervasiva ironia si stende nel piccolo spazio della mostra: le Dame a Palazzo riconquistano la loro turbata intimità della vita, con incomprensibili bisbiglii, sottili ciance e l’ammutolito cicalare sugli inevitabili pettegolezzi di corte.
Mancano solo cicisbei e damerini per il settecentesco quadro.Forse sono stati sostituiti dagli astanti che, galanti e leziosi come autentici cicisbei, si avvicinano alle stralunate dame, le scrutano e le corteggiano attraverso la fitta rete degli allucinati sguardi incrociati.
Questa è l’atmosfera, tra passatismo letterario e surrealtà salottiera, costruita e messa in mostra da Maria Pia Daidone. L’evocazione è misteriosa e sconcertante perché coincide, in modo singolare, con i luoghi ed il neapolitan baroque and rococò architecture (per dirla con il titolo del bel saggio di Blunt) dei Palazzo.Le dame sono scese dall’ampio scalone, hanno attraversato il cortile e l’insidioso atrio per offrirsi come quintessenza di forme sanfeliciane, all’interno delle quali pulsa il cuore feminino che è la semenza di tutto. I caratteri esteriori delle dame, acconciate, vestite, sottoposte ad accurate pettinature, drappeggiate di seta, taffettà, velluto e broccatello, emergono nelle piccole e significative declinazioni dei profili, nei vari trasalimenti resi dalle loro oblique espressioni. Daidone costruisce queste teste di profilo come architetture, aggregando pezzi su pezzi, fino a costituire una orografia dei panneggiamenti, di pieghe in gran parte fisionomiche nelle quali stringe e modella i suoi inquietanti e ambigui personaggi.
E’ un lavoro di sartoria, ma anche di architettura. “Non a caso Schelling avvicina l’architettura alla sartoria e si chiede perché i sarti non siano considerati al pari degli architetti: per quanto egli stimi i secondi superiori ai primi, tuttavia sostiene che una parte cospicua della plastica è rappresentata dal panneggiamento e dall’abbigliamento, i quali possono essere considerati come la più perfetta e la più bella architettura” (Mario Perniola).Con finissima tecnica grafica, Maria Pia rivela la profondità alchemica della sua ricerca, fascinosamente conturbante: i volti delle dame sono contrassegnati da piccoli segni, simboli appena percettibili che riconducono le fisionomie alla loro radice surrealista.Non sono né petecchie né alterazioni dell’incarnato, ma nuovi indizi indicativi della tipologia espressiva. Insomma, un equivalente simbolico del neo; un nuovo neo inteso come focus della fisionomia.
In definitiva, si tratta di un vero neoneo che dà il senso della vita ad ognuna delle straordinarie dame daidoniane, che sembrano reduci da un estenuante e ambiguo intrattenimento galante ed erotico a Citera. L’isola dei culto di Afrodite Urania, cui ha dedicato le più belle tele Jean-Antoine Watteau.
Franco Lista