Interrogata sul significato dei suoi graffiti che si dipartono (o convogliano?) nella sfera centrale dei suoi dipinti, la pittrice ha così risposto: “Il mio cerchio si trasforma sulla tela in un occhio del mondo, un occhio che si apre verso l’universo e verso l’ignoto. I segni graffiti invadono lo spazio circostante che è quasi sempre di colore nero (…) “.
Inconsapevolmente (io credo) l’artista ha espresso con queste parole un concetto del buddismo zen, secondo cui il cerchio è il simbolo sia della totalità dell’universo sia del vuoto ultimo, una dinamica vacuità temporale da cui deriva ogni cosa e la cui natura si conosce solo nella illuminazione.
Questa “illuminazione” assume (o può assumere, secondo il pensiero della pittrice stessa) i caratteri o meglio “un significato di protezione, di rifugio”, e in questo senso potrebbe essere considerato una specie di utero metafisico o Uovo Primigenio (secondo una terminologia cara agli alchimisti).
Risulta evidente la natura “simbolica” di questa pittura, che rimane “pittura” nonostante gli ammiccamenti ad un certo grafismo.
Pittura pura, direi, perché è il colore a predominare, un colore concepito non come “riempitivo” di una forma, ma protagonista lui stesso (lui per prima) del significato, del contenuto dell’opera.
Napoli, 1997
Marcello D’Orta